La tragica morte di Gene Hackman e di sua moglie Betsy Arakawa è un monito doloroso su un tema di cui si parla ancora troppo poco: la solitudine degli anziani e, con essa, quella dei caregiver, i familiari e gli amici che si prendono cura di loro. L’Alzheimer non è solo una malattia della memoria: è una condizione che isola, cancella identità, distrugge relazioni. E chi assiste un malato ne diventa spesso una vittima silenziosa.

Oggi viviamo in una società in cui l’invecchiamento o è visto come un mercato (la silver economy) o è visto come un problema e la fragilità come qualcosa da nascondere. L’Alzheimer porta con sé uno stigma che allontana, che fa paura. Le famiglie si ritrovano sole ad affrontare una malattia che richiede un impegno costante, senza pause, spesso senza il supporto delle istituzioni o di una rete sociale solida. Perfino i figli, come nel caso di Hackman, possono perdersi nel vortice delle loro vite, lasciando i genitori in un isolamento che diventa una condanna.

Non possiamo accettare che la solitudine sia il destino di chi invecchia o di chi assiste un malato, che spesso si ammala a sua volta proprio a causa di questa “solitudine contro tutto”. Dobbiamo costruire comunità più consapevoli, rafforzare i servizi di supporto, sensibilizzare sull’importanza di stare vicino a chi affronta questa malattia, far uscire dalle proprie abitazioni e solitudini le persone che vivono la demenza e i loro familiari con iniziative dedicate a loro e di rinforzo, noi di Nomos insieme ai nostri professionisti e operatori lo vediamo ogni giorno nei nostri Atelier e nei Caffè Alzheimer: l’attenzione di esperti, il supporto di professionisti al momento giusto, la socialità e la condivisione possono fare la differenza. Ma ovviamente siamo una goccia nell’oceano. Ciò che serve è un cambiamento culturale più profondo. Serve riscoprire il valore della vicinanza, dell’ascolto, della cura reciproca.

Francesco Manneschi

presidente Nomos


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